Massimo segno della fine, è il principio.
L'uomo destinato alla gloria non teme la povertà e la miseria perché sa che nella miseria il suo ingegno diverrà genio.
Molti hanno il talento di farsi odiare per poco.
Quanto sa, gl'impedisce di sapere quanto dovrebbe.
Teneva la moglie come certi bibliofili tengono i libri, senza toccarli.
Qual è la miglior lingua? Leggo Shakespeare, e dico, è l'inglese, leggo Virgilio e dico "è il latino", leggo Dante e dico è l'italiano, leggo Richter, e dico, è il tedesco, leggo Porta, e dico è il milanese.
La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
Il lieto fine è la nostra fede nazionale.
La percezione della fine è dentro ciascuno di noi, è uno stigma della specie, un marchio della sua caducità.
Da qualche parte esiste una fine. Solo che non si trova un cartello con scritto "Ecco, questa è la fine", come al gradino più alto di una scala non si trova scritto: "Attenzione, questo è l'ultimo gradino. Non fate un passo oltre."
Un fine autentico può fare a meno di speranze e anche di ogni probabilità di essere raggiunto.
Più o meno, noi desideriamo veder la fine di tutto ciò che operiamo e facciamo; siamo impazienti di giungere al termine, e lieti di esservi giunti. Soltanto la fine totale, la fine di tutte le fini, noi ce l'auguriamo, di solito, il più tardi possibile.
Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine? A questa domanda che il pensiero lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi.
C'è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte.
Il fine può giustificare i mezzi purché ci sia qualcosa che giustifichi il fine.
Fine ultimo di tutto, la fine.