Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne.
Hanno scritto nel marmo a lettere d'oro: Qui abitò lavorò e morì un grande uomo. Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui. Questa panchina ‐ non toccare ‐ l'ha scolpita lui. E ‐ attenzione, tre gradini ‐ entriamo dentro.
In una pensione di montagna andrebbe, nella sala da pranzo scenderebbe, i quattro abeti di ramo in ramo, senza scuoterne la neve fresca, dal tavolino accanto alla finestra guarderebbe.
Hanno scoperto una nuova stella, ma non vuol dire che vi sia più luce e qualcosa che prima mancava.
Non arrivavano in molti fino a trent'anni. La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre. L'infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo. Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere prima che tramontasse il sole, prima che cadesse la neve.
Dopo ogni guerra c'è chi deve ripulire. In fondo un po' d'ordine da solo non si fa.
Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ci fa i begli stivali, hanno nel fondo dell'anima una tendenza alla poesia.
La letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità.
I poeti sono privi di pudore verso le loro esperienze interiori: le sfruttano.
La poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l'abisso che scinde orale e scritto.
Per i moderni la poesia è qualcosa che non si può spiegare, è una suggestione.
Scrivere poesie non è difficile. Difficile è viverle.
Anche il poeta ha un corpo. Mangia. Invecchia. Anche il poeta è stretto nella sua triste carne.
Se Galileo avesse scritto in versi che il mondo si muoveva, forse l'inquisizione lo avrebbe lasciato stare.
La poesia è parola, il contrario della politica, che dovrebbe essere "fatti, non parole".
La poesia si avvicina alle verità essenziali più della storia.