Il miglior antidoto al dolore è il lavoro.
È un errore gravissimo mettersi a teorizzare prima di avere tutti gli elementi. Distorce il giudizio.
Niente è più innaturale dell'ovvio.
A che serve questo circolo vizioso di dolore, di violenza, di paura? Deve avere uno scopo, altrimenti il nostro universo è governato dal caso, il che è impensabile. Ma quale? Questo è l'immenso, sempiterno interrogativo al quale la mente umana è ancora lontanissima dal poter dare una risposta.
Tra il grottesco e l'orrendo non c'è che un passo.
Il miglior modo per chiarirsi le idee è quello di spiegarle a un'altra persona.
Apprestati lentamente al lavoro, ma ciò che cominci, portalo a termine.
Purché non sia in quantità eccessiva, anche il lavoro più monotono riesce meno gravoso dell'ozio alla maggior parte della gente.
Se procediamo nel lavoro che abbiamo sottomano, il fine ultimo di quel lavoro diventa irrilevante, svanisce.
Il successo è un buon effetto collaterale, ma quello che a me interessa è lavorare.
Sii ben ordinato nella tua vita, e ordinario come un borghese, in modo da poter essere violento e originale nel tuo lavoro.
Tutto è in ritardo in Italia, quando si tratta di iniziare un lavoro. Tutto è in anticipo quando si tratta di smetterlo.
Chi ha molto da fare non ha tempo di abbandonarsi alla dissolutezza. Senza dubbio il lavoro cancella i vizi generati dall'ozio.
Perché si lavora? Certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche, e soprattutto, per accrescere i bisogni dell'uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo.
Il lavoro caccia i vizi derivanti dall'ozio.
In linea di principio un facchino differisce da un filosofo meno che un mastino da un levriero. È la divisione del lavoro che ha creato un abisso tra l'uno e l'altro.