Qualcuno ci sorveglia mentre scriviamo. La madre. Il maestro. Shakespeare. Dio.
Non è affatto chiaro come l'idea del paradiso-via-inferno abbia potuto sopravvivere a un solo istante di riflessione.
Le pallottole non possono essere chieste indietro. Non potevano non essere inventate. Ma possono essere tolte dai fucili.
Quando arriva il successo per uno scrittore inglese, questi si procura una nuova macchina da scrivere. Quando il successo arriva per uno scrittore americano, si procura una nuova moglie.
L'invidia non arriva mai al ballo vestita da invidia. Arriva vestita da qualcos'altro: ascetismo, standard elevati, buonsenso.
È impossibile scrivere in pace se quello che si scrive vale qualcosa.
Scrivere è profanare, e i ricordi scritti sono ricordi persi.
Scrivere presuppone ogni volta la scelta d'un atteggiamento psicologico, d'un rapporto col mondo, d'un'impostazione di voce, d'un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell'esperienza e di fantasmi dell'immaginazione, insomma di uno stile.
Nessuno che non fosse uno stupido ha mai scritto per ragioni diverse che per far quattrini.
Meglio usare la penna che le mani, è un modo più elegante di dare cazzotti.
Perché non ho scritto La Divina Commedia? Perché non c'ho pensato.
Se non scrivo quello che vedo effettivamente accadere su questo globo infelice racchiuso nei contorni del mio teschio penserò che il povero Dio mi abbia mandato sulla terra per niente.
Il processo creativo in se stesso è già un'attività estremamente piacevole: per me è divenuta come una droga della quale non posso farne a meno. Generalmente lavoro per un anno, poi mi concedo sei mesi di relax e di viaggi. Trascorsa questa pausa, comincio ad attendere con ansia l'ispirazione.
Se posso mantenermi facendo lo scrittore, allora posso fare quello che voglio.
Scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.