Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti.
L'amore è un castigo: siamo puniti per non aver saputo restare soli.
Ogni felicità è una forma di innocenza.
I pensieri periscono, come gli uomini.
È forse meglio non accorgersi delle lacrime, quando non possiamo consolarle.
Chiudersi in sé, consacrarsi esclusivamente al lavoro, significherebbe fare del proprio io una prigione.
L'interesse per la malattia e la morte è sempre e soltanto un'altra espressione dell'interesse per la vita.
La morte rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l'ultimo; non c'è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d'un sogno.
Chi sa morire, non ha più padrone.
È l'ignoto che temiamo, quando guardiamo la morte e il buio, nient'altro.
La morte è il male più grande, perché recide la speranza.
Morrai non perché sei malato, ma perché vivi.
La tradizionale versione apocalittica di una fine del mondo, con i suoi immani cataclismi che investono tutti, è anche rassicurante, perché permette di sovrastare l'angoscia della propria morte con l'immagine di una morte universale, di roghi e diluvi che bruciano e sommergono ogni cosa.
La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.
Tutti i momenti possiamo morire ma, in ogni caso, non prima di domani.
La nostra morte non è una fine se possiamo vivere nei nostri figli e nella giovane generazione. Perché essi sono noi: i nostri corpi non sono che le foglie appassite sull'albero della vita.