Nel mondo io sono come una goccia d'acqua che cerca un'altra goccia nell'oceano e che vi si lascia cadere per trovar la sua compagna e inavvertita e curiosa vi si perde.
— William Shakespeare
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La nostra interpretazione
Una singola goccia d’acqua immersa nell’immensità dell’oceano evoca subito la fragilità dell’individuo di fronte all’enormità del mondo. La forza dell’immagine, però, non sta solo nel senso di smarrimento, ma nel richiamo profondo al desiderio di unirsi a qualcosa o qualcuno che sia affine, quasi predestinato. L’esistenza appare come un viaggio silenzioso e ostinato alla ricerca di una presenza capace di rispondere alla propria solitudine, di dare senso al proprio essere così piccolo e vulnerabile. Nel momento in cui la goccia si lascia cadere, avviene un gesto di fiducia: si abbandona a una forza più grande, accettando di perdere la propria forma distinta pur di incontrare la “compagna” cercata. In questo abbandono c’è insieme curiosità e inconsapevolezza, come se l’anima desiderasse l’unione totale senza misurare fino in fondo il prezzo da pagare: dissolversi, smettere di essere individuo per diventare parte di un tutto. L’immagine rende l’amore un’esperienza radicale, dove l’identità personale rischia di confondersi e perdersi, ma proprio in questa perdita trova la sua pienezza. Non si tratta soltanto di incontro romantico, ma di un bisogno più profondo di appartenenza, di fusione con un’altra essenza in grado di rispecchiare la propria. La tensione verso l’altro diventa così anche tensione verso il senso ultimo della vita, che sembra rivelarsi solo nel momento in cui si accetta di non bastare a sé stessi e di cercare nell’altro la propria continuità.
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