La sovranità del popolo è inalienabile.
Se l'orgoglio richiede che si umilia il nemico, la carità, virtù caratteristica della religione di Cristo, vuole che ci riconciliamo coi nemici.
La fortuna è una cortigiana schietta.
Il regime della Chiesa non è punto arbitrario; essa ha canoni e leggi che il Papa deve osservare.
L'onore di un sovrano non deve mai essere in contraddizione con la felicità del suo paese.
La vita è cosparsa di tanti triboli e può recare tanti mali che la morte non è il male peggiore.
Il popolo deve stare allerta e vigile. Non deve lasciarsi provocare, né lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con il suo impegno una vita degna e migliore.
Non vi è condizione peggiore per un popolo di quella di divenire soggetto ad un altro popolo.
Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. La sovranità gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione.
Il popolo freme, sussurra, si accalca, brontola, strepita, acclama, fischia, deride, dileggia, minaccia, ondeggia, schiamazza, si indigna, avanza. E poi torna a casa per cena.
Non sono i popoli a dover aver paura dei propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli.
Se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più.
Il popolo non può capire la burocrazia: può solo adorare gli idoli nazionali.
La natura dei popoli è prima cruda, poi severa, quindi benigna, appresso delicata, finalmente dissoluta.
Il popolo capisce poco ciò che è grande, cioè: la creazione. Ma esso ha comprensione per tutti gli attori e i commedianti delle grandi cause.