Crediamo perché vogliamo credere. Agli dèi perché placano la paura della morte. All'amore perché fa sembrare la vita piú bella.
— Jo Nesbø
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La nostra interpretazione
L’essere umano ha un bisogno profondo di credere, non solo per aderire a una verità oggettiva, ma per trovare sollievo alle proprie paure e dare colore all’esistenza. L’idea della divinità non nasce soltanto da una riflessione filosofica, ma anche da un’urgenza emotiva: la paura della morte, dell’ignoto, dell’annullamento. Pensare a una dimensione superiore, a un ordine che va oltre la vita terrena, permette di addolcire l’angoscia e di trasformare il timore in speranza o almeno in rassegnazione sopportabile. Allo stesso modo, l’amore non è solo un fatto biologico o sociale, ma una scelta interiore di attribuire significato e bellezza alla propria vita. Credere nell’amore, nella possibilità di essere amati e di amare, rende sopportabili le fatiche quotidiane e illumina il grigiore con una promessa di pienezza. Il sentimento amoroso diventa una lente che abbellisce il reale, anche quando questo resta imperfetto o doloroso. Il testo suggerisce che la fede, in tutte le sue forme, è meno un’adesione razionale e più un atto di volontà, una risposta istintiva alla vulnerabilità umana. Credere equivale a scegliere una narrazione che renda la vita meno spaventosa e più desiderabile, anche a costo di sospendere il dubbio. In questo senso, divinità e amore si pongono come due grandi rifugi esistenziali: uno contro il terrore del nulla, l’altro contro il vuoto emotivo e la banalità del vivere. La forza di queste credenze non sta tanto nella loro dimostrabilità, quanto nella loro capacità di offrire conforto, senso e bellezza a una condizione fragile e finita.