Sul palco mi sento davvero a mio agio e mi manca da morire.
Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze.
Il cinema dovrebbe farti dimenticare che sei seduto in un teatro.
La carriera della maggior parte di quelli che fanno teatro è fatta di delusioni.
Il teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me.
Certe persone vivono in lotta con altre, con se stesse, con la vita. Allora si inventano opere teatrali immaginarie e adattano il copione alle proprie frustrazioni.
A due anni mi portarono in scena dentro uno scatolone legata proprio come una bambola perché non scivolassi fuori. E così il mio destino fu segnato. Da "Pupatella" attraverso la poupée francese, divenni per tutti "Pupella" nel teatro e nella vita.
Come attore non ho preso molto da mio padre, perché sono piuttosto diverso da lui caratterialmente. Credo di aver preso da lui il rigore, una serietà professionale al limite della malattia mentale, che però mi è utile, soprattutto in teatro.
Vi era una sorta di aristocrazia intellettuale che disdegnava il teatro perché contaminazione di generi. Del resto in Italia siamo lenti, la prima opera di Cechov è arrivata nel '24. Gli altri paesi avevano capito prima di noi che il teatro era fusione di cultura e letteratura.
Ho passato vent'anni sul palco prima di affrontare una telecamera.
Più il teatro è stato prestigioso, più epico l'inseguimento, più la miseria della sala vuota divora.