Per me la morte non è una cosa spaventosa. Vivere è invece una maledizione.
Prendiamo in mano la nostra vita. L'abbiamo abbandonata. Siamo arrivati stanchi. Noi non abbiamo commesso suicidio. Abbiamo commesso un atto di suicidio rivoluzionario per protestare contro le condizioni di un mondo disumano.
Tutta la mia vita ho sofferto di povertà, ho affrontato molte delusioni e dolore. Ecco perché voglio fare felici gli altri e voglio che si sentano come a casa.
Non ci si prepara alla morte, ci si separa della vita.
Non è importante il modo in cui in uomo muore, ma quello in cui vive: l'atto di morire non è importante, dura così poco.
Essere ricordati dopo morti non è che una magra ricompensa per essere stati trattati con disprezzo quando eravamo in vita.
La morte viveva in me e mi abbandonò per andare a vivere in un altro corpo.
La morte è il riconoscimento della fraternità, della comune natura filiale. Forse è la strada per accogliere l'idea di creazione divina che mi riesce tanto difficile.
Dopo la morte attendono gli uomini cose che non sperano e neppure immaginano.
Ogniqualvolta muore un uomo, è un universo intero a venire distrutto. Ce ne rendiamo conto non appena ci identifichiamo con quell'uomo.
I poeti danno molta importanza alla morte e alle afflizioni esteriori, ma le sole tragedie sono le sconfitte dell'anima e l'unica epopea è l'ascesa trionfante dell'uomo verso la divinità.
Mi chiede: "Fa molto male morire? " "Beh, tesoro," rispondo, "sì, ma fa molto più male continuare a vivere".
Vista positivamente, la morte è una delle poche cose che si possono fare facilmente restando distesi.