Il teatro è sempre stato importante per la mia psiche.
Vivere in una piccola città non è sempre idilliaco: ci si sente in trappola e si è maggiormente consapevoli delle ipocrisie della società.
Al college ho lasciato medicina per fare teatro, poi mi sono trasferito a San Francisco e ci ho vissuto per cinque anni.
Il cinema dovrebbe farti dimenticare che sei seduto su una poltrona di un teatro.
Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze.
Il teatro è per il pubblico e il pubblico non può essere esclusivamente benestante e privilegiato.
Ho sempre rifiutato le offerte teatrali, perché ritengo che il vero attore sia quello di teatro, che apre il palcoscenico e, se sbaglia una sillaba, viene buttato fuori dal pubblico. Nel cinema, al quarantesimo ciak, anche una scimmia riesce a far bene la scena.
Ho passato vent'anni sul palco prima di affrontare una telecamera.
Se è assolutamente necessario che l'arte o il teatro servano a qualche cosa, dirò che dovrebbero servire a insegnare alla gente che ci sono attività che non servono a niente, e che è indispensabile che ce ne siano.
Il teatro mi ha insegnato a non lasciare spazi vuoti nello spettacolo.
Ho cercato, innanzitutto, di crearmi una maschera, non tingendomi il volto, o annerendomi il naso; né volevo il successo puntando sulle gambe delle donnine. Volevo creare un personaggio concreto e nello stesso tempo sfasato nel linguaggio.
Fare una scuola di teatro o di cinema, lavorare in tutti e due i settori, in entrambi gli spazi, è un arricchimento. Fa capire che il termine attore è comune ai due ambiti, ma le tecniche sono completamente diverse.